Lance Armstrong, il doping, la Fenice e la new age
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Lance Armstrong, il doping, la Fenice e la new age

Nuovi dubbi sulle vittorie del secondo Lance, quello capace di sconfiggere la malattia ma non i sospetti di doping

Lance Armstrong, il doping, la Fenice e la new age

Nella vita degli uomini, di tutti gli uomini esistono istanti che fanno spartiacque tra un prima e dopo. Un dopo diverso da un prima. Radicalmente diverso. La diagnosi di un tumore è sempre un momento in cui il mondo sembra crollarti addosso per assumere una nuova conformazione spaziale e temporale. Esisteva un Lance Armstrong che, non è eresia dirlo, apparteneva, ciclisticamente parlando, alla genia dei Moreno Argentin, dei Maurizio Fondriest, dei Paolo Bettini, ossia di quelli che una volta erano chiamati “finisseur”, gente capace di vincere una gara, anche dura, in linea, quelle da un giorno, ma senza la regolarità dei passisti e senza le qualità da scalatore. Armstrong prima dell’annuncio choc dei tumori ai testicoli era un corridore grosso modo del livello del nostro Davide Rebellin. Aveva vinto un titolo mondiale in una fredda e piovosa giornata estiva ad Oslo nel 1993, un mondiale caratterizzato da una serie impressionante di cadute. E aveva commosso gli italiani e il mondo l’indomani della morte al Tour de France di Fabio Casartelli nel 1995, suo compagno di scuderia, gli occhi e le mani al cielo nella più inutile tappa al Tour degli ultimi anni. Nel 1996, l’annuncio della malattia.

L’uomo, il corridore che riemerse nel 1999 è un mistero.

I fanatici della cospirazione e degli enigmi avrebbero in mano buone carte per dimostrare che, a tutti gli effetti, trattasi di sostituzione di persona.

La Fenice che riemerge dalla malattia è abbagliante a cronometro, laddove, prima,  per cronometrare i suoi distacchi occoreva non il cronometro, ma la sveglia, e fulminante in salita, capace di staccare gli scalatori, mentre, prima, finiva nel gruppetto dei velocisti.

Il primo Armstrong aveva terminato un solo tour, il nuovo ne vince sette di fila.                  

Meglio di Jacquet Anquetil, profeta del cronometro; meglio di Bernard Hinault, guru dei passisti; meglio di Miguel Indurain, sciamano delle corse contro il tempo; meglio di Eddy Merckx, vate del cannibalismo ciclistico all’ennesima potenza.                                             

A ben vedere anche fisicamente sembra un’altra persona. E non bastano le dichiarazioni riguardo alla sua grande resistenza, al cuore capace di pompare più sangue, alla capacità di eliminare più velocemente l’acido lattico. Ha sempre evitato i controlli antidoping più severi asserendo che lui aveva bisogno per vivere di assumere alcuni medicinali; nel tempo il nuovo Armstrong, passata l’iniziale emozione di vedere un miracolato tornare a correre ad lato livello,cominciò ad alimentari dubbi dapprima striscianti, poi sussurrati e infine urlati. E’ notizia di questi giorni una nuova recrudescenza dell’invettiva contro le vittorie sospette e i controlli evitati dal texano. Io sono sempre stato convinto che ci fosse qualcosa di poco chiaro nelle sue vittorie, come anche in quelle della velocista Florence Griffith-Joyner e li ho anche raccontati.

Però, però…  Uno degli errori più comuni che commettiamo è quello di rapportare gli altri alle nostre capacità. Ragionando in questo modo la “vicenda di Armstrong” non appartiene alla consueta esperienza umana, Lance non avrebbe più dovuto correre, forse nemmeno vivere. Però…

E se avesse imparato ad attingere nei giorni bui della malattia a risorse che abbiamo dentro di noi ma che non ci sono facilmente accessibili? Eccolo qui il mito della Fenice in chiave postmoderna e new age.

Non scartiamo aprioristicamente tale ipotesi solamente perché non riusciamo a spiegarci l’improbabile. 

                                                                                                                         

                                                                    Massimo    Bencivenga

 

 
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