Il 30 Maggio del 1992, nel Palazzo di Vetro, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvò la risoluzione numero 757; una risoluzione che, fra le tante cose, stabilì il divieto alle rappresentative jugoslave di partecipare a qualsiasi manifestazione sportiva.
Quindi anche agli Europei del 1992, conquistati sul campo prima che la parola balcanizzazione diventasse di uso comune.
Al posto degli jugoslavi, che uniti avrebbero potuto presentare una signora squadra, con i Boban, i Suker, i Mijatovic, i Mihajlovic, gli Jugovic ad affiancare i vecchi, si fa per dire, draghi Stojkovic e Savicevic. Certo, ci sarebbe stato anche Darko Pandev, ma con quei compagni avrebbe fatto gol chiunque.
La fase finale, per l’ultima volta a 8 squadre, si sarebbe tenuta in Svezia. La Danimarca, chiamata a sostituire la Jugoslavia, avrebbe completato il lotto comprendente la Svezia padrona di casa; l’Olanda di Van Basten, Gullit, Koeman; l’Inghilterra di Platt, un giovane Shearer e del vecchio bucaniere d’area Lineker; la Germania di Matthaus, Hassler, Klinsmann; la Scozia di McAllister e del bomber McCoist; La C.S.I. che era la Comunità degli Stati indipendenti, una sorta di nazionale-Frankestein sorta sulle ceneri del dissolvimento politico dell’URSS, imperniata sulla sostanza di Mikhailichenko, sulla corsa di Kanchelskis e sulla classe di Dobrovolsky, che già aveva incantato alle Olimpiadi di Seoul e che avrebbe invero meritato miglior fortuna. Per un po’ qualcuno avanzò l’ipotesi che l’Italia, eliminata perché seconda nel girone proprio dietro l’URSS, potesse entrare dalla porta di servizio alla kermesse; ma nisba, l’Italia rimase a guardare.
Ne mancava una, vero? L’ultima era la Francia allenata da Platini, che aveva ben impressionato e che davano appena dietro le favorite Germania (avete notato che non c’è più la distinzione Ovest o Est?) e Olanda, potendo contare sulla solidità di Deschamps, sulla regia difensiva di Blanc, sul genio e sregolatezza di Cantona e sulla verve realizzativa di Papin, che pochi mesi prima France Football, non senza qualche scalpore, aveva incoronato, con il Pallone d’Oro, come miglior calciatore del Vecchio Continente.
E nella partita inaugurale Papin fa subito gol, andando a pareggiare il vantaggio degli svedesi.
I danesi, richiamati dalle vacanze dal ct Richard Møller-Nielsen, hanno in testa un semplice obiettivo: fare le tre partite del girone senza incorrere in figuracce di dimensioni epiche. Nella prima partita ci pensa il gigantesco Schmeichel a dire di no alle offensive degli inglesi; offensive abbastanza confuse bisogna dirlo, i figli d’Albione non sembrarono granché in condizione. Nella seconda partita, la Danimarca si ritrovò dinanzi i padroni di casa. Che avevano anche una signora squadra, come il mondo avrebbe poi scoperto solo due anni dopo, con un centrocampo muscolare e al fosforo, con Thern, il povero Ingesson e Schwarz, con il centroboa Kenneth Andersson ad aprire varchi per Thomas Brolin (talento polivalente). A galleggiare tra attacco e difesa c’era uno con lineamenti da gitano e piedi sudamericani: Anders Limpar.
Troppo forti gli svedesi, che infatti s’imposero per effetto di un gol di Brolin. Due partite, un punto e zero gol segnati. Ancora un’altra partita, si dicevano i danesi, e riprenderemo le vacanze dopo questa chiamata all’ultimo minuto. Vacanze alle quali non aveva rinunciato il più forte di loro: Michael Laudrup, che aveva deciso di non rispondere, diversamente dal fratello Brian, alla chiamata del mister. E qualcun altro avrebbe voluto dire no, ma non lo fece.
Alla Francia di Le Roi Platini bastava un pareggio per passare, ma è proprio quando tutto sembra semplici che le divinità del calcio iniziano a sghignazzare…
Una palla vagante nell’area di rigore venne scagliata in rete dal sinistro di Henrik Larsen. I galletti schiumarono rabbia, si riversarono all’attacco e, nella ripresa, impattarono, riportando la qualificazione dallo loro parte, con un tiro di chirurgica precisione di Papin, liberato in area di rigore da colpo di tacco. Platini fece cenno ai suoi di non attaccare, ma l’atteggiamento sparagnino non è mai stato nell’indole dei transalpini.
E fu così che Povlsen, un roccioso centravanti, riuscì ad eludere un tentativo di off-side a trequarti di campo e a offrire a Eltrup (altro mestierante) la palla del 2-1 che portò in semifinale la Danimarca. In questa partita non c’era Vilfort, uno dei centrocampisti titolari. Vilfort, ne risentiremo parlare, era uno di quelli avrebbe preferito non giocarli quegli Europei. Kim Vilfort aveva la figlia gravemente malata di leucemia, ecco perché avrebbe preferito, come Laudrup, declinare la kermesse. Rientrò per la semifinale però, Vilfort. Contro l’Olanda campionessa in carica, che ai vecchi bucanieri aveva aggiunto i nuovi talenti di Bergkamp e Roy, sempre della fulgida e rinomata scuola Ajax.
Nella prima seminale, la Germania aveva avuto ragione, non senza qualche patema, della Svezia, grazie a una doppietta di Kalle Riedle. La finale annunciata era Germania-Olanda, rivincita tanto della semifinale europea dell’88 quanto degli ottavi di Italia ’90.
Ma gli dèi, e la lezione del Maracanazo sembra non essere mai stata assorbita completamente, amano confondere, sogghignare e punire le umane voglie.
Il figlio scarso dei coniugi Laudrup dopo 5 minuti disegnò, dal fondo, un arcobaleno sul quale intervenne la testa di Henrik Larsen per fare 1-0. L’Olanda cominciò ad attaccare a testa bassa, la Danimarca ringhiava sugli esteti orange e cercava di pungere in contropiede con Brian Laudrup sempre pronti a lanciarsi negli spazi. Bergkamp marcò l’1-1, ma ancora l’Ufo pisano (Già perché aveva giocato in A con il Pisa del pirotecnico presidentissimo Anconetani) Henrik Larsen riuscì, sia pure rocambolescamente, a portare all’intervallo in vantaggio per 2-1 i danesi. Il danese che aveva segnato un solo gol nella nostra serie A, segnò tre reti, risultando capocannoniere in coabitazione con Riedle, Brolin e Bergkamp, nella rassegna continentale. Succede, non spesso ma succede che un Carneade diventi protagonista.
Schmeichel si oppose da par suo, ma nel finale di partita, dove non poterono i tocchi di fino dei Van Basten, dei Roy e dei Bergkamp, arrivò il cuore e la randellata di Rijkard per il 2-2 che significò supplementari. Altre parate di Schmeichel, altri errori sottomisura (Vero Roy?) e rigori. I danesi segnarono tutti, per gli orange sbagliò chi meno si pensava: Marco Van Basten, che prese una rincorsa più incerta e tirò male, ma proprio male, consentendo al portierone danese di intercettare la sfera.
La squadra di Vogts, subentrato a Beckenbauer del quale era già stato scudiero e scherano è forte, ma ormai, per tutti, la Germania è il cattivo che si oppone alla favola della Danimarca. E come nella favole, il cattivo soccombe. John Jensen arrivò su una palla vagante e sembrò fare uno di quei tiri tanto per… solo che questa volta il tiro andò alle spalle di Illgner.
La Germania schiumava rabbia, ma i danesi non cedevano di un centimetro, anche a costo di farsi ammonire tutti. Schmeichel fu sontuoso su un diagonale di Klinsmann, Brian Laudrup officiava in contropiede come Cubillas. Ma per essere completa la favola deve chiudersi con il Ritorno dell’Eroe. Kim Vilfort, quello della figlia malata, s’inserì sull’ennesima carambola, fintò di destro e concluse di sinistro. Un sinistro di tale precisione Vilfort non l’aveva mai scoccato né mai lo scoccherà più: palo e 2-0 davanti agli occhi impietriti di Matthaus, Effenberg e Brehme, l’uomo che calciava con entrambi i piedi.
La favola era della Danimarca, però.
La figlia di Kim Vilfort morì poche settimane dopo.
Massimo Bencivenga |