Stretta tra la Cina e la Russia c’è la Mongolia, la terra del grande Chinggis Khaan, l’imperatore che nacque come Temujin (per alcuni conosciuto Temujin il fabbro) e che il mondo intero conosce come Gengis Khan, il Borjigin, ossia il Maestro del Lupo Blu.
Da qualche anno la Mongolia sta vivendo una crescita che definire tumultuosa significa usare un eufemismo.
Mentre in Italia daremmo chissà cosa per crescere anche di uno 0,1%, la Mongolia ha fatto registrare un +17,5% nel 2011 e nel 2013 un + 12%. Numeri che una volta facevano Cina e India, le locomotive del mondo e che adesso sono avvicinati solo dal Sudan meridionale.
E’ una terra grande circa cinque volte l’Italia, ma con solo tre milioni di abitanti, un milione dei quali vivono nella capitale Ulan Bator. Il rapporto garantisce la minore densità di popolazione sul pianeta, con il 45% della popolazione al di sotto dei 24 anni.
Ok, tutto molto carino, direte, ma considerando anche il paesaggio aspro (avete presente il deserto di Gobi) e il clima inospitale (Ulan Bator è considerata la capitale più fredda del mondo) come si spiega un simile boom economico.
Il paese è ricco di risorse minerarie; l’industria mineraria tira tutto il resto. Ovunque si scorgono trivelle per estrarre carbone, petrolio e rame, uranio e oro.
Nonostante la crescita, il paese viaggia a due velocità: c’è Ulan Bator. E c’è il resto, che corrisponde alle popolazioni stanziali, nomadi e seminomadi che vivono tra la stessa Ulan Bator, le steppe e il deserto di Gobi.
Ma anche nella capitale non è tutto oro ciò che luccica.
Accanto ai palazzoni, agli alberghi c’è la tribù delle formiche, migliaia di uomini, donne e bambini che vivono sotto Ulan Bator e che sfruttano il calore delle pompe e delle condotte di calore per non morire di freddo.
Sono i barboni della Mongolia, molti di loro sono arrivati speranzosi dalle campagne e dalla steppa, con l’aspirazione e il sogno di una vita migliore, ma vi hanno trovato solo alcool, disperazione, disoccupazione e tristezza.
Ma non è l’unico effetto collaterale.
L’affrancamento da vicini ingombranti come Cina e Russia (anche se export è per l’85% verso la Cina, pertanto dipendente ed eccome dall’andamento dell’economia cinese) e l’ondata di benessere e ottimismo ha prodotto e sta fomentando un sempre più deciso e forte richiamo al nazionalismo, che da queste parti s’incarna, a Ulan Bator come nel vuoto del deserto con la figura e le gesta di Gengis Khan, l’uomo che seppe creare il più vasto impero della storia umana nel tredicesimo secolo; un imperatore la cui tomba e il cui favoloso tesoro non è mai stato trovato.
Per alcuni la tomba si trova nelle vicinanze del luogo di nascita, da qualche parte, quindi, tra le montagne, forse su Burkhan Khaldun.
Fatto sta che appena vi allontanate un po’ da Ulan Bator scorgere ancora le gher, le rotonde e tradizionali tende di yurta dei nomadi che vivono di allevamento di pecore, cavalli e cammelli.
E se chiederete ospitalità, i nomadi della Mongolia vi offriranno la zuppa di barbabietole e l’aruul, il formaggio secco e duro, molto nutriente che più che morsicato va succhiato come una caramella.
Ma non meravigliatevi se scorgerete, sulla tenda o poco lontano, una parabolica; i ragazzi e gli adolescenti della steppa conoscono per bene i canti dei nonni, quelli usati per spingere le pecore o per incitare un cavallo, per allattare gli agnellini o per segnare l’inizio o la fine di una stagione. I mongoli avevano un canto per ogni cosa; i giovani di adesso conoscono queste cose, ma anche la musica che passa Mtv.
Last but not least, alcuni studi genetici sembrano evidenziare che l’8% degli asiatici e un uomo su 200 nel mondo sia un discendente di Gengis Khan.
Quindi, forse, la Mongolia è dentro tanti di noi ben più di quanto possiamo immaginare.
Massimo Bencivenga |