La questione dei guadagni dei manager pubblici è tornata di grande e stridente attività. Se è vero che il momento imporrebbe una qualche frugalità e sacrifici per tutti, ammesso che abbassarsi lo stipendio a 302mila euro sia un sacrificio, è altrettanto vero che all’estero si premiano anche di più, solo che lì, spesso o nella quasi totalità dei casi, la performance finanziaria è legata alle performance aziendali e agli obiettivi raggiunti.
Qualche supermanager ha anche paventato fughe all’estero dei manager stessi, qualcun altro ha impiantato un paragone con gli omologhi europei; ma la questione fu affrontata a suo tempo anche dal Governo Monti che, in ossequio alle direttivi di sobrietà che voleva incarnare, decise che nessuno avrebbe dovuto guadagnare più del presidente della Corte Suprema.
Questa era l’idea di base, il punto è che subito il Tesoro riuscì a ottenere l’esclusione delle società quotate come Eni, Enel, Finmeccanica e Terna; poi un successivo emendamento escluse dai tagli anche i manager delle società non quotate, a patto che le stesse avessero però emesso "strumenti finanziari" sui mercati non regolamentati.
Infine il colpo di grazia, l’emendamento per le controllate.
Stringi stringi alla fine a “pagare” sarebbero, a quanto pare, Arcuri e Ciucci. E fa un po’ specie in effetti constatare che Ma certo fa ridere che su 7.411 società pubbliche il tetto dei 302mila euro abbia dispiegato concretamente i propri effetti solo in un paio di casi.
Eppure anche questo, forse soprattutto ciò, è il vero moloch italiano che si troverà dover affrontare Matteo Renzi, vale a dire la straordinaria resilienza dei burocrati e dei mandarini che vedono come il fumo negli occhi ogni qualsivoglia turbamento di uno status quo che piace tanto, molto. Troppo. E che il Matteo nazionale è fermamente intenzionato se non a scardinare, perlomeno a incrinare. Perché, alla fin fine, lui, Renzi, su questa cosa dei tagli ai manager, ma non solo, ci sta mettendo la faccia.
Massimo Bencivenga |