 Iniziano oggi, ma per i risultati definitivi bisognerà attendere un mesetto, le elezioni della più grande democrazia del mondo: l’India. I numeri per il gigante asiatico sono, more solito, impressionanti, elefantiaci, se mi passate il termine. 714 milioni di elettori saranno chiamati a decidere il loro destino, scegliendo 543 deputati per la camera bassa. A voi il calcolo della proporzione con i deputati italiani. Pur tenendo conto che le percentuali non sono mai alte, e tenendo conto del fatto che oltre un terzo degli indiani adulti è analfabeta, si può ben intuire le dimensioni dell’evento. Un altro fattore da non sottovalutare è l’incredibile frammentazione politica dell’India.
Oltre 40 partiti politici avevano seggi nel Parlamento uscente. La coalizione di governo, guidata dall’Indian National Congress, uno dei due soli partiti politici su scala nazionale, raccoglieva dieci partiti, ma contava sul sostegno informale di altri quattro. C’è molta incertezza, anche tra gli analisti e i politologi locali circa il possibile partito vincitore da un tale coacervo. Sembrerebbero favoriti il partito di centro sinistra di Sonia Gandhi (vale la pena ricordare che Sonia Gandhi è italiana, nata Edvige Antonia Albina Maino diventata Gandhi dopo aver sposato Rajiv, figlio di Indira) attualmente al potere col primo ministro Manmohan Singh, un sikh di 76 anni, che incarna la complessità etnica e sociale di questo enorme Paese; e il partito del popolo, nazionalista di destra, di Lal Krishna Advani, indù di 81 anni.
Gli analisti stessi sono però fortemente scettici riguardo alla possibilità che una coalizione, quale che sia, riesca a governare senza dover ricorrere ad alleanze più o meno trasversali o con una forte connotazione regionale; partiti come quello guidato da Mayawati Kumari, indù della classe degli intoccabili. Non va assolutamente sottovalutata l’impatto che la crisi globale, che non sta risparmiando l’India, avrà sulle elezioni. E’ prevista infatti una crescita del 4-5%, una percentuale che sarebbe salutata con una salva di giubilo in Eurolandia, ma drammaticamente bassa in un paese che girava, anno per anno, intorno al 10%. Il vento montante del socialismo come risposta ad un liberismo sregolato potrebbe favorire il Samajwadi Party (Partito socialista). Il leader del Partito socialista, Mulayam Singh Yadav, ha già annunciato che, qualora entrerà nell’esecutivo, si batterà per l'eliminazione dell'inglese nel sistema scolastico, la riduzione drastica dell'uso dei computer nella pubblica amministrazione e di grandi macchinari in agricoltura responsabili queste della crescente disoccupazione. Per ciò che concerne la lingua Mulayam Singh Yadav auspica un ritorno all’Hindi e ai dialetti locali. Il Samajwadi Party, che propone, vale la pena ricordarlo, il socialismo democratico, è, ad oggi, la quarta formazione politica del Parlamento indiano e pertanto potrebbe rivelarsi l’ago della bilancia. Obiettivamente le sue idee sono un po’ troppo retrò e utopiche, del tipo: non qui, non adesso. All’estero l’India è, universalmente, identificata come il Paese delle caste; in realtà la compartimentazione in caste è relativamente recente. La Storia dell’India è, da millenni, una storia di tolleranza e rispetto tra popolazioni, etnie, religioni e culture diverse. E’ già successo nel passato, ci sono stati capi indù, musulmani e sikh illuminati, e lo è, per certi versi, adesso. A titolo esemplificativo pensiamo alle conseguenze che le frizioni tra religioni ed etnie diverse generano nei vicini Pakistan e Afghanistan. Ci sono però state già degli scontri con ribelli maoisti, ma questo, se resta confinato nell’ordine delle unità, rappresenta un fattore di dissenzo, e di violenza, fisiologico in un paese di 1 miliardo di persone. Per chi ne voglia sapere di più sulla tradizione culturale di tolleranza e cultura dell’india si consiglia il libro “L’Altra India” del Premio Nobel per l’Economia del 1998 Amartya Sen.
Massimo Bencivenga |