Il Carnevale. Brevi cenni su origine, mito e antropologia della festa
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Il Carnevale. Brevi cenni su origine, mito e antropologia della festa

Brevi cenni perché il concetto di mondo alla rovescia è molto complesso

Il Carnevale. Brevi cenni su origine, mito e antropologia della festa

Ancora un paio di settimane scarse e terminerà anche il periodo di Carnevale, che lascerà il posto al periodo di Quaresima. Da bambino amavo molto il periodo di Carnevale, ci si travestiva, si facevano recite a scuola, sono stato, ricordo, tanto Arlecchino quanto Pulcinella.

Ma com’è nato il Carnevale? Quali sono le sue origini? Antiche, molto antiche. In genere si fa riferimento ai saturnali e lupercali di romana memoria, giorni dedicati a riti legati e votati alle divinità della terra e della fertilità. Il “carnevale” romano era insomma un inno alle forze delle primavera che erano lì lì per risvegliarsi dopo il sonno e il rigore dell’inverno, riti e momenti atti a celebrare la forza rigogliosa e prepotente della natura e della luce che prendono il sopravvento sulla stagione sterile e sulla luce.

In realtà, riti simili al Carnevale, dove ogni scherzo vale, possono essere rintracciati sicuramente nell’Antico Egitto e prima ancora nella mezzaluna fertile quando c’erano i sumeri.
Ma probabilmente, a ben vedere, il tema sottostante all’odierno Carnevale, vale a dire “Il mondo alla rovescia”, è qualcosa di antropologicamente legato all’uomo, ne ha parlato anche Platone, e non mi meraviglierei se giornate di caos, di servi che diventano padroni, si potessero riscontrare anche nelle culture andine e nella polinesia. Giusto così, per dire ed en passant, cos’erano se non rappresentazioni del mondo alla rovescia le amazzoni che storpiavano gli uomini, considerati alla stregua di animali da monta?

Spesso, antropologicamente ed etnograficamente, il Carnevale è definito per l’appunto “mondo alla rovescia”, che trovava l’apice nel “Re del Carnevale”, generalmente un individuo non solo di basse origini sociali ma riconducibile anche allo “scemo del villaggio”. Questo personaggio, che impersonava la temporanea inversione dei ruoli, veniva ora osannato ora dileggiato lungo la processione, prima di essere ucciso “simbolicamente”, non prima però di aver di aver denunciando pubblicamente i soprusi, le angherie e i crimini compiuti all’interno della comunità nell’anno appena trascorso.

Una uccisione che ha perlomeno una valenza doppia: la rinascita della Natura e il ripristino dello status quo.

Per cui, quasi sempre, i giorni di caos servivano a legittimare l’ordine precostituito.

Il carnevale come abolizione  provvisoria di tutti i rapporti gerarchici, dei privilegi, delle regole e dei tabù serviva a rendere più sopportabile, anzi a invocare, l’ordine precedente perché più sicuro, meno rivoluzionario, meno esplosivo. Nel medioevo, gli uomini e le donne aspettavano con ansia questa festa che, con il pretesto del rovesciamento dei ruoli altri non era che un inno alla perpetua ineguaglianza. Ma non dare importanza a feste simili, atte a suscitare allegria e riso (Rabelais e altri) nel popolo basso significa non tener in debito conto né comprendere appieno la coscienza culturale del Medioevo, né tantomeno la successiva cultura del Rinascimento.

In post precedenti mi sono occupato dell’enigmatica maschera di Arlecchino e del carnevale sardo.

 

Massimo Bencivenga 

 
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