 Ci sono due calciatori argentini di origini italiane. E sin qua niente di nuovo. I due hanno giocato entrambi nel River Plate, ma in tempi diversi. Il primo arrivò quando la Maquina era all’apice, ma riuscì comunque a farsi largo, al punto da sgomitare con El Napoleon del calcio Adolfo Pedernera. Già, la Maquina; se domandate a un argentino appassionato di calcio che abbia almeno 75 anni quale squadra lo ha impressionato di più ci sono buon probabilità che vi dirà il River Plate della Maquina. Ma cos’era la Maquina? Una linea d’attacco leggendaria.
Da destra a sinistra: Munoz, Moreno, Pedernera, Labruna e Lostau. L’attaccante di rincalzo era il primo calciatore di origini argentine citato sopra: un giovane Alfredo Di Stefano, la saeta rubia, l’uomo che fece grande il River, il Millionarios di Bogotà e il Real Madrid, troneggiando, per leadership tecnica e caratteriale, anche su gente come Kopa e Puskas.
L’altro calciatore citato sopra era uno degli “Angeli dalla faccia sporca”, uno che aveva avuto in dono dalla Natura un gran testone e un sinistro particolare, irriverente e irritante, e sto parlando di Omar Sivori.
I due s’incontrarono, o meglio si scontrarono, nella Coppa dei Campioni del 1961-62. Nei quarti di finale. All’andata finì 1-0 per quelli del Real, che avevano dominato le prime cinque edizioni, e solo l’anno prima avevano passato la mano.
Peggio ancora, le merengues erano state estromesse dai rivali storici del Barcellona, una squadra anch’essa mica male, visto che poteva contare sui magiari Kocsis, Czibor e, soprattutto lui, l’immenso Lazslo Kubala. A dirigere l’orchestra catalana un giovane rapido di gambe e di idee, una sorta di rincarnazione di Pepe Schiaffino. Un giovane che s’isserà con l’Inter sul trono del Mondo: Luis Suarez.
Peraltro Di Stefano avrebbe anche dovuto giocare con il Barcellona, ma il Real era sempre il Real, e allora un giudice decise: “Un anno con il Barcellona e uno con il Real Madrid”. I catalani si sentirono presi in giro e rifiutarono tutto, sentenza e Di Stefano. Ma sto divagando, capita quando si parla di calcio. E di quegli anni. Arriviamo alla gara di ritorno. Real Madrid – Juventus 21 Febbraio 1962.
La Juve scelse di scendere in campo con la maglia nera. Il Real cominciò a macinare gioco a modo suo, facile quando hai Di Stefano e Gento, il calciatore più veloce del mondo. Facile quando hai con te il tenente colonnello Ferenc Puskas, un altro che aveva avuto in dono un sinistro magico, unico, che usava com un’arma non convenzionale.
Ma il bello del calcio è che la palla è rotonda, rotola dove viene indirizzata. A volte è bizzosa anche. Sia come sia, Nicolè, un attaccante juventino di talento, che avrebbe potuto lasciare davvero un’orma nel nostro calcio, effettuò un cross. E quando la Juve effettuava un cross in quegli anni spesso e volentieri a colpire spuntava la testa del gallese John Charles, il gigante buono.
E anche quella sera andò così. Charles anticipò Santamaria e fece sponda per… per chi? Per l’altro mancino magico che c’era in campo. Già, la palla finì dalle parti di Sivori che insaccò di precisione.
Nel secondo tempo il Real pressò alla ricerca del pareggio, ma tutto sommato la Juventus si difese con ordine e così finì. Ma questa non è una storia come tante. Questa è Storia. Perché il colpo mancino di Sivori sancì due cose: la vittoria della Juventus e la prima – la prima!- sconfitta del Real Madrid in campo europeo nella sua tana, nel catino ribollente del Santiago Bernabeu, nello stadio dove la palla non esce mai, specie se il Real non sta vincendo.
Ecco, gli juventini devono aggrapparsi a questi momenti. Sono più scarsi adesso come lo erano nel 1962.
E come allora hanno un argentino che è quasi all’ultima chiamata per lasciare un segno forte nel Calcio. Tevez ha giocato nei rivali storici del River, ma poco importa, perché al Bernabeu dovrà travestirsi da Sivori.
Massimo Bencivenga |